Le parole in amore hanno un altro significato: basta, scusami, amami. Nessuna ha la forza di restare, semanticamente, dentro i propri limiti, così come i sentimenti che sfuggono alle definizioni. Discutere si può, ma bisognerebbe almeno mettersi d’accordo sul come, anche se poi si finisce a fare l’amore dovunque.

La lezione prima è che l’amore è dolore, ma un dolce dolore, amabile miscuglio di guerra e unione, di pace e allontanamento: gli amanti possono essere insieme, così come separati, seppur sempre legati da un gentile filo.

Su questo semplice assunto, nasce “Per tutte le volte che”, la delicata canzone che il giovane Pierdavide Carone ha scritto per il giovanissimo Valerio Scanu. I critici l’hanno snobbata; gli stessi fan si sono trovati in disaccordo, per una volta, col loro beniamino: qualcuno l’ha trovata troppo leggerina, poco giocata sulle qualità vocali di Valerio.

In realtà, il pezzo è difficilissimo: ci vuole un gran fiato per superare alla grande il ritornello, segnato da un fraseggio intensissimo, addirittura pericoloso, soprattutto dal vivo. Quando il ritmo si fa improvvisamente velocissimo, non c’è tempo per un respiro. Occorre avere una padronanza reale della propria voce per non farsi ingolfare da questo rompicapo: difficile che qualcun altro, a parte Valerio, sia in grado di affrontare una prova talmente forte e che lo Scanu ha superato, tra l’altro, anche a cappella (complice un problema, chissà quanto estemporaneo, ai microfoni di “Domenica in”).

L’alternanza di pianissimi e fortissimi esalta, nella stridente contraddizione, la plasticità vocale di Valerio, capace di tenersi sotto le parole e poco sopra l’accompagnamento del piano all’inizio, per poi aprirsi quando la canzone da fintamente arrabbiata, da dubbiosa si lascia andare ad un grido che non si sa se è disperazione, o passione, o entrambe le cose, mescolate in un amore onnisciente, omnipervasivo, che riscatta, appunto, la sofferenza (“noi coperti sotto il mare,/ a far l’amore in tutti i modi,/ in tutti i luoghi, in tutti i laghi,/ in tutto il mondo, l’universo che ci insegue,/ ma ormai siamo irraggiungibili”).

E’ ancora una volta la forza dell’ossimoro che incanta nella voce di Valerio, capace di trovare la via dell’equilibrio tra l’infinitamente alto e l’infinitamente basso, tra la gioia e il dolore. E peccato che non tutti l’abbiano compreso al primo ascolto: può succedere ed infatti ha vinto Sanremo la canzone che, tra tutte le altre, complice anche l’eliminazione della giuria demoscopica nella seconda serata, è stata ascoltata più volte in assoluto.

Qui si gioca l’abilità di un cantante: nella sua versatilità, reale, non immaginata, non nell’imporre a tutti i testi il proprio stile, ma nel sapersi calare perfettamente nelle parole, dando a ciascuna di loro, come insegna Luca Jurman, il preciso significato che essa ha. Valerio, così, sa evocare, con la sua nitidezza, la coperta dell’acqua che nasconde i due amanti (“noi coperti sotto il mare”), l’inverno dell’amore (“come se un giorno freddo in pieno inverno/ nudi non avessimo poi tanto freddo”), la corsa dell’universo (e sfido io chiunque a dare altrettanta forza a questa parola ripetuta ben tre volte di seguito).

“Per tutte le volte che”, in ultima analisi, con il suo giro armonico felice, anche se sommato a parole perfino crude, perfino crudeli con se stesse, perché in disarmonia prima di tutto nel loro rapporto, è interpretata da Valerio con una cura cristallina: i passaggi logici svolti con chiarezza persuasiva (la forza con cui sottolinea “c’è una volta in cui scatta/ qualcosa fuori e dentro di noi”, in immediato contrasto con la delicatezza con cui affronta il successivo passaggio: “tutto il resto è piccolo/ come uno spillo impercettibile”), il travolgimento dei sensi ben espresso dall’unico, gigantesco acuto di petto (“a far l’amore”).