Dolcenera, “Ci vediamo a casa” (Dolcenera): cantautrice di tradizione sanremasca, assai televisiva, si presenta con un tono vanoniano e un ciuffo verdolino. La canzone s’apre subito, ma rimane piuttosto anonima, quasi appiattita sempre sulle stesse note, forse anche per via dell’arrangiamento troppo roccheggiante e che forse non le si addice. Il testo, quasi incomprensibile, mette insieme parole in libertà, talora senza una struttura grammaticale visibile, soprattutto mancando di un significato complessivo riconoscibile. Forse è un dialogo tra due amanti che coabitano, ma cosa c’entrino in quel contesto i tre versi: “La chiamano realtà/ senza testimone/ e di dubbia moralità” è assolutamente un mistero. Voto: 4 1/2

Samuele Bersani, “Un pallone” (Samuele Bersani): molto, troppo imitato, l’artista riminese presenta un pezzo-filastrocca, senza difficoltà canore, ma irto di allusioni di significato in un testo particolarmente intenso, senz’essere davvero poetico, come nella tipica scrittura bersaniana. Il pallone diviene metafora della vita difficile dei nostri giorni: tra illusioni e isterismi, rappresenta l’uomo, o più in particolare l’Italiano, che qualche volta addirittura si sente “perso” come la palla non più utile all’azione nel gergo calcistico. Voto: 7

Noemi, “Sono solo parole” (Fabrizio Moro): Noemi mette la sua voce roca al servizio di una canzoncina d’amore non particolarmente originale a firma di Fabrizio Moro, che, in effetti, ultimamente non ha proprio scritto capolavori. Le parole di cui si parla sono quelle che esprimono con ovvietà e troppa naturalezza disagi esistenziali tra gente che si ama. La vita di coppia è troppo grigia in questa canzone, il cui ritornello è noiosamente ripetitivo. Alla fine, viene spontaneo aggiungere al “Sono solo parole” un bel “tra noi”, a citare i poveri, troppo dimenticati Jalisse. Voto: 5

Francesco Renga, “La tua bellezza” (Renga-Mancino-Faini): inno all’incendio della passione, ricco di similitudini, spesso molto creative (“Sto precipitando, amore mio,/ come la pioggia sul tuo viso,/ come il cielo quando crolla all’improvviso”), il pezzo è però molto poco accattivante dal punto di vista musicale. Però, Renga è sempre Renga, un cantante dalle doti eccezionali, capace di far brillare anche le piccole canzoni, com’è forse questo il caso. Purtroppo, a un testo tanto geniale corrisponde meno forza melodica di quel che sarebbe richiesto. Voto: 7+

Chiara Civello, “Al posto del mondo” (Civello-Tejera): incredibilmente, partecipa una chiarissima sconosciuta al festival, dove le partecipazioni di cantanti di “Amici” che almeno avevano venduto centinaia di migliaia di dischi sono state criticatissime. La canzone è terribilmente orecchiabile: si canta dopo tre minuti. Le parole sono giuste, a cantare un amore meraviglioso e totalizzante (“Più in alto/ di questo cielo/ impossibile cadere giù/ se distesi in un prato di stelle”). Lei è perfetta, anche se qualche sbavatura non la direbbe decisamente la migliore delle cantanti jazz della sua generazione. Voce per niente particolare, anzi forse piuttosto anonima, riscattata però da una canzone bastardissima, molto paracula. Voto: 8 1/2

Irene Fornaciari, “Grande mistero” (Davide Van de Sfroos): l’altra grande raccomandata del festival, questa figlia d’arte che dovrebbe vivere d’arte e poverina non ha tutto questo gran talento è un secondo DJ Francesco. Voce non pervenuta, timbro quasi antipatico, si perde in una ballata molto veloce, scritta da un Van de Sfroos tornato improvvisamente italiano (e forse un po’ meno bandiera del leghismo ormai non più imperante). Il senso è particolarmente assente in questo cataclisma di parole assordanti, che ne perdono anche di più, volendo, grazie all’interpretazione rock (dicesi: piattissima) della povera Zuccherina. Forse è anche il caso di cambiare musica, o semplicemente professione. Voto: 3

Emma, “Non è l’inferno” (Silvestre-Sala-Palmosi): la canzone che non ti aspetti, soprattutto dalla Marrone di “Calore” e dai Modà, che l’hanno scritta. Emma stavolta canta la società in crisi, un anziano soldato che non arriva a fine mese, dopo il congedo, canta anche la inutilità delle parole che qualche volta sono fin troppe e non danno da mangiare. Niente di speciale, ma Emma è migliorata e fa la sua figura. Peccato che la canzone non sia così splendida. Voto: 6

Marlene Kuntz, “Canzone per un figlio” (Godano-Tesio-Bergia): si potrebbe definire una lettera, poco epicurea, sulla natura della felicità, ovviamente indirizzata al figlio. Alla fine, il testo, che pure potrebbe sembrare a prima vista interessante, è solo una serie di piccoli topoi nemmeno troppo interessanti su cosa si possa considerare filosoficamente felicità. E tra il fatto che essa è simile ad un’illusione e il fatto che bisogna sapere chi si è per raggiungerla, la voce magica del frontman (Cristiano Godano), che conosce il rock e qui fa qualcosa di quasi inascoltabile, non riscatta proprio per niente la povertà delle idee di una band della storia italiana che si gioca davvero male la chance di questo Sanremo. Voto: 5

Eugenio Finardi, “E tu lo chiami Dio” (Roberta Di Lorenzo): sconsolata preghiera, senza Dio, il pezzo di Finardi, non firmato da lui (e questa è già una novità), benché con qualche scivolone nell’ovvietà (e nell’ametricità, come quel “parlà” che fa tanto Carla Bruni imitata da Fiorello), è solidamente costruito. Dove trovare Dio nel caos del nostro mondo? E’ l’eterna domanda di Agostino: dov’è Dio, se esiste il male. Voto: 7 1/2

Gigi D’Alessio – Loredana Bertè, “Respirare” (Gigi D’Alessio- Vincenzo D’Agostino- Gigi D’Alessio): una coppia incredibile e assolutamente impossibile, eppure affiatata, quella creata dal buonista D’Alessio che rispolvera una Bertè fantasiosa e roccheggiante, ma intonata (una volta tanto). Il dialogo è ben costruito tra un amico e una donna che masochisticamente si tormenta per un amore finito. Sono parole facili, ma naturali, nella conversazione tra due anime sdrucite. La Bertè qui trova il modo di raccontare la sua sofferenza, che non è d’amore nel senso normale del termine, ma d’amore per il pubblico e, in effetti, per la vita in generale. Voto: 8+

Nina Zilli, “Per sempre” (Casalino-Zilli): tutto farebbe pensare ad un immortale pezzo di Mina, ma quel livello è irraggiungibile anche per la Zilli, che usa parole strausate (che forse sono anche responsabilità di Casalino, intendiamoci) per raccontarci le riflessioni di una donna che tornerebbe dal suo antico amore, solo se fosse per sempre. L’incipit quasi lirico si oppone al centro della canzone, che è quasi asfissiatamente veloce. La voce è certo una delle più interessanti degli ultimi anni sanremaschi, ma forse è un po’ poco per farla diventare una vera regina della canzone. Voto: 7/8

Pierdavide Carone con Lucio Dalla, “Nanì” (Carone-Dalla): imbarazzante, tranne quando, dal palco dell’orchestra, interviene un ispirato Lucio Dalla a fare il controcanto. Pierdavide si infogna in una canzone d’amore per una prostituta, possibile nel migliore dei mondi possibili, ma imbarazzante (torno a dire) in questo. Spiace trovarlo così, forse un po’ migliorato nel canto, ma inaridito nella vena creativa. L’idea è tremenda, anche perché il mestiere non ha più oggi l’antico sapore (evocato anche nel testo della canzone) delle donnine genovesi di De André, ma quello del commercio di carne in mano alla criminalità. Ormai, le vecchie meretrici dai volti meravigliosi e dalle parole alate sono state sostituite da un mercimonio che non ha niente più di bello o fascinoso. E perfino la via Prè che tanto ispirava il cantautore genovese è ostaggio di tutto tranne che dell’amore, anche quello a pagamento. Meglio l’anno scorso l’immortale Albano sullo stesso tema. Voto: 3

Arisa, “La notte” (Giuseppe Anastasi): il titolo ricorderebbe l’immortale pezzo di Adamo, che però è di altri tempi e forse al pubblico giovane direbbe troppo poco. Il tema, però, è lo stesso: è la notte che fa iniziare i discorsi sulla propria vita, sull’amore soprattutto, sulla solitudine. Il dolore, simboleggiato dalla corsa delle parole, che si accavallano, è compagno dei momenti in cui si resta soli. Chi vive col dolore della propria esistenza conosce bene quelle ore disturbate di sonno, dove la serenità è lontana e tutto è buio, tutto è tristezza. Quanta bellezza nella voce splendida di Arisa, capace di tanta autoanalisi tragica e crudele: si guarda dentro e noi con lei viviamo il momento e pure noi cediamo alle sue parole che invitano a capirci. E’ un momento delicato e commovente. Non capita sempre e quest’anno è capitato troppo poco sul palco di Sanremo. Voto: 9

Matia Bazar, “Sei tu” (Golzi-Cassano-Perversi): un pezzo meraviglioso, questo, veramente nuovo e originale, seppure nella tradizione griffata dei Matia Bazar. L’elettronica si sposa perfettamente con gli accenti lirici della splendida voce della Mezzanotti; le parole levigate, spietate, senza infingimenti, sono mescolate a metafore che diventano immagini potenti, degne di un poeta della tradizione  ligure. Il solito capolavoro, che sicuramente sarà, al solito, poco compreso da una critica che non capisce niente di poesia. Voto: 10