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Certo, se dovessero crescere ancora un po’, dite a Zanforlin di allargare un po’ la porta della sala canto. Eh sì, perché i nostri divin cafoni, di pariniana memoria, capaci di memorabili performance, non solo canore, naturalmente (visto che di canoro hanno ben poco), sono leggermente sovrappeso.
Ci si riferisce, ça va sans dire, ai due elementi della nouvelle vague amiciana, agli immarcescibili ed educatissimi eredi del Nunziante d’annata, quello stesso che a mala pena sapeva distinguere un pianoforte da un’amatriciana della zia: il mitico Gerardo Pulli, il grunge che avanza (di panza, probabilmente, ma solo per fare la rima), e la fantasmagorica Alessia Di Francesco, l’henné che avanza (nel senso che ne resta tanto appiccicato ai capelli che con le sole goccioline che ne stillano si potrebbe ricolorare l’intero Mar Rosso).
Lo so, lo so: è troppo facile sparare sulla Crocerossa. Questo post sembrerà piuttosto un tweet, uno stato su facebook, ma insomma… mi andava troppo.
Il Pulli ci ha donato una perla, che io ammanisco a voi porci miei lettori (absit iniuria verbis):
E così nel panorama sconsolato di quelli che sarebbe meglio che zappassero la terra invece che cantare (purtroppo tantissimi in queste ultime edizioni di “Amici”, da quando qualche scarso di talento ha scoperto che la tv può evitare di studiare seriamente), s’inserisce quest’anno immancabile lo svociato, alias Gerardo Pulli, un vero incapace che ha la caratteristica, questa del tutto nuova, di voler fare il verso, mentre canta (cioé cerca di cantare, cioé in realtà latra), a Vasco Rossi.
E in effetti sentivamo fortemente l’assenza, in quel di “Amici”, di un nuovo caso umano, di un montato che si crede erede del migliore cantautorato italiano, di un esaltato che, nella sua smania di apparire come geniale, invece fa impallidire certi ricordi orrorosi del recente passato, di un folle che ha scambiato il suo dimenticabilissimo “Io sono ai tropici” con la nuova “Amazing Grace”.
Diciamocelo: in tv non si inventa niente. E, del resto, la ricerca di originalità è un’ansia tipica di noi moderni, che, quando, per esempio, sentiamo una canzone appena pubblicata, non riusciamo a non inventare paragoni. Dunque, prima di parlare di “Glee”, bisogna, per forza, sgombrare il campo da qualche sciocchezzuola che è stata detta a proposito di questo serial, così tanto amato in tutto il mondo.
Non è vero (ma proprio per nulla vero) che “Glee” sia un prodotto originale dell’inventività americana, qualcosa di “mai visto”. Basta avere un minimo di intelligenza e memoria televisiva per ricordare che di serial legati alla vita della high school i magazzini tv sono pienissimi: “Beverly Hills 90210”, tanto per dirne uno (e forse quasi un antesignano del genere, ma non sono troppo sicuro di questa affermazione), “Saved by the bell”, tanto per dirne un altro (e giusto per avvicinare il top col flop).
La cucina è anche eros, a quanto pare. Dalle parti di “MasterChef” ne sono convinti, tanto che i tre finalisti presentano al mondo, tra compagni, fidanzati e mariti, tre uomini che definire poco elegantemente manzi sarebbe volgare, ma assai veritiero. Eppure a guardarli bene, Luisa, Ilenia e Spyros non entrerebbero di diritto tra le Olgettine.
Per il resto, la puntata scivola bella tranquilla verso il vincitore designato fin da subito, come nella migliore delle tradizioni della casa, che decide l’esito di ciascun turno nei primi dodici secondi e lo dice pure, perché “arrogance” ci piace.
Povero Mengoni, così solo. A leggere, però, i suoi testi, non sembra un artista tanto isolato, ostracizzato: in realtà ne esce come un infelice assediato dagli intervistatori (“Come ti senti”), come una grande star punita per la sua “differenza” (forse perfino sessuale, forse no, ma poco importa – qualche volta basta l’ombra del gossip a creare il personaggio), come un attore la cui personalità viene fagocitata dal successo (“Mangialanima”). Insomma, MM non si sente comune: si sente diverso (e, intendiamoci, fa anche bene) – però, alla fine la sensazione che ti resta in bocca è stucchevole.
E’ la sensazione di chi ascolta, qualche volta a bocca aperta, qualche volta turandosi le orecchie, e poi sbotta a dire: “Ma chi si crede di essere, ‘sto qui?”. E, poi, subito dopo averlo detto, ti rimangi subito le parole, perché si tratta pur sempre di un talento straordinario. Al servizio, d’altra parte, di un ego spropositato, che sperimenta, che prova e riprova, ma che ancora non è tanto maturo da “fare da solo”, senza qualche aiutino qui e là.
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